Secondo i pregiudizi più diffusi, tra Atene e Sparta ci sarebbe da sempre stata una inconciliabile dicotomia: l’una caratterizzata da un ordinamento democratico e innovativo, aperta agli scambi e al commercio, l’altra chiusa in mondo militarizzato e congelato nelle sue restrizioni alle libertà individuali. Eppure a sfatare questi archetipi e pregiudizi basterebbe confrontare la produzione poetica di queste due Poleis che appare, così come un più misurato confronto tra le strutture etiche delle loro istituzioni proposto dalla studiosa di Diritto romano e greco antico Eva Cantarella in “Sparta Atene. Autoritarismo e democrazia“, in egual misura sfolgorante.
Attorno al VII secolo a Sparta, nonostante la maggior parte dei cittadini non fu mai istruita in letteratura o filosofia e incoraggiata, così come ad Atene, allo sviluppo artistico perché prevalentemente dedita all’adempimento del servizio militare, erano presenti grandi poeti che scelsero di trasmettere oralmente i loro versi per metterli a disposizione della propria città-stato con l’intento di coniugare la loro indole gioiosa e danzante (rappresentata dal lirico Alcmane, ad esempio) e quella rigorosa, militaresca e politica alla Tirteo in occasione delle feste Gimnopedie e le Carnee e dei banchetti organizzati dalla classe aristocratica degli etáiroi.

I poeti spartani si lasciavano accompagnare durante le loro esibizioni dalla musica, amplificata nella sua bellezza dalle sonorità di un flauto o di una cetra a sette corde ideata da Terpandro di Lesbo, e come temi ricorrenti della loro produzione parenetica (ovvero esortativa) preferivano esaltare, in diletto dorico, lo stile di vita morigerato e semplice dei Lacedemoni decantando i loro riti d’iniziazione e di passaggio all’età adulta, l’estremo patriottismo e la devozione ai monarchi vigenti.
Una sostanziale differenza nella lirica corale spartana intercorreva all’epoca tra i canti in onore degli dei (come il Peana proprio del culto di Apollo, il Ditirambo, sacro a Dioniso, il Partenio, cantato da fanciulle vergini e dedicato ad Artemide, il canto processionale del Prosodio, canto processionale e l’Iporchema propedeutico alla danza) e canti per gli uomini (l’Encomio, in onore di persone segnalatesi in diverse circostanze, l’Epinicio riservato ai vincitori delle gare sportive, il canto funebre dell’Epicedio assieme al Threnos, il conviviale Scolio e l’Imeneo e l’Epitalamio cantati durante le cerimonie nuziali).
I filologi tendono a distinguere nella lirica corale di origine peloponnesiaca due periodi: il primo compreso tra il 650 e il 550 a.C. (rispettivamente florilegio di Alcmane e morte di Stesicoro) in cui le celebrazioni si rivolgevano direttamente a un pubblico, il secondo periodo dal 550 al 438 a.C. (rispettivamente dalla nascita di Simonide alla scomparsa di Pindaro) in cui la committenza di tipo aristocratico aveva portato inevitabilmente all’inserimento, all’interno del canto, di un motivo adulatorio o “eroificato” del richiedente stesso.

“Giovani spartani che si esercitano” di Edgar Degas (Copyright immagine)
Qui per soddisfare le attese del pubblico il poeta affina l’abilità di fondere in modo originale il tema mitico e celebrare così il committente spesso “eroificato” attraverso il mito stesso. Ed è proprio a quest’ultima fase appartengono quegli artisti caratterizzati, nonostante le limitazioni della commitenza, da grande “πολυτροπία” (polytropia – “versatilità”, o “norma del polipo”, per dirla con B. Gentili) come Pindaro di Cinocefale e Simonide e Bacchilide di di Ceo.
Dal VI secolo a.C. la creazione artistica di Sparta inizia però via via a impoverirsi a causa del pressante sforzo di conservare la precaria stabilità politica ed economica dalle durissime battaglie combattute contro Atene, la città rivale dove invece la poesia nel periodo militaresco (e soprattutto delle guerre greco-persiane) non solo continua a resistere alle priorità contingenti ma persino a fiorire con maggiore e sorprendente rigoglio.
Il primo poeta elegiaco ionico-attico che si ricorda nella storia è il nobile Solone (ci è giunta intera la sua “Elegia delle muse“), come ricostruito da Aristotele nella “Costituzione degli Ateniesi” e, di seguito, la sopraffina elaborazione dei versi tra esperienza politica e lirica di Alceo.

Gli intellettuali ateniesi avevano il compito ufficiale, all’interno della polis, di fare da guida morale ai cittadini nella loro quotidianità e di essere i portavoci della retorica atenocentrica sui valori democratici. Al coinvolgimento del pubblico mira anche il linguaggio figurato, ricco di metafore, similitudini e allegorie che alludono a realtà spesso decifrabili soltanto nell’ambito del gruppo o consorteria politica (etería) a cui il poeta si rivolge nella sua poesia ora monodica (Saffo, Anacreonte) ora elegiaca (Solone, Mimnermo, Teognide, Senofane) o drammatica (Tepsi, Frinico, Eschilo), giusto per citare qualche genere di riferimento.
Una eterogeneità vastissima, quella nei numerosissimi poeti di Atene, che rispecchierà forse più di Sparta la consapevolezza dell’ambiguità di quella realtà che è fonte di inquietudine e in cui spesso non è impossibile ricavare indicazioni di valore o regole di comportamento per riuscire a conciliarle attraverso i versi nella filosofia del logos, così come magistralmente spiegato da Mauro Bonazzi in “Atene, la città inquieta” (Einaudi):
«La linea platonica insiste sulla possibilità di trovare un senso complessivo alle cose, in cui sia riservato un posto anche per l’essere umano; la linea omerica è più dubbiosa di queste possibilità e più incline a considerare l’uomo nella sua solitudine in un mondo solo parzialmente intellegibile. Entrambe continuano a risuonare nei dibattiti odierni».

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