Tra gli imperdibili documentari presenti sulla piattaforma Netflix spicca senza dubbio “The Rachel Divide“, diretto da Laura Brownson nel 2018. L’opera cerca di approfondire la particolare storia dell’attivista per i diritti degli afroamericani a Spokane (USA), presidentessa della sede locale del NAACP, (Associazione Nazionale per la Promozione delle Persone di Colore), e docente universitaria degli Studi Africani alla Eastern Washington University Rachel Dolezal, travolta nel 2015 da una tempesta di fuoco mediatica a seguito di una delle più sorprendenti e controverse accuse di frode razziale.
Il girato cerca di offrire il diritto di replica proprio alla novella Zelig, leader maxima a capo di manifestazioni e set-in contro le discriminazioni che per anni, percependosi come afroamericana, si è finta nera attraverso stratagemmi farlocchi come treccine extension e maquillage scuri per rendere più ambrato il viso, nonostante fosse biologicamente caucasica.
In seguito a questa rivelazione, la Dolezal, licenziata subito in tronco dalle sue cariche istituzionali, è diventata il martellante bersaglio di numerosi giornalisti americani che, continuando a dipingerla come disturbata e bugiarda, hanno in questo modo allungato numerose ombre sull’intero suo operato per l’integrazione comunitaria, di fatto vanificandolo drasticamente.
La regista cerca quindi di comprendere le motivazioni più intime che hanno spinto questa giovane madre bianca a percepire di appartenere spiritualmente ed emotivamente a un’altra etnia, ricercando i suoi problemi di confusione identitaria nel cuore dell’infanzia. Secondo la Dolezal, infatti, il bisogno di proteggere i suoi quattro fratelli adottivi di origine africana dagli abusi psicologici dei suoi genitori, ferventi credenti religiosi del Montana, ha scatenato a lungo andare in lei un’accesa repulsione verso tutti i suprematisti, arrivando all’inizio a rifiutare la propria immagine riflessa allo specchio fin poi a considerarsi definitivamente una donna nera intrappolata nel corpo di una bianca.
Denunciata così per appropriazione culturale e esempio di “privilegio bianco”, visto che i suoi contestatori ipotizzano che nessun nero sarebbe autorizzato a eseguire un tale stratagemma inverso, la Dolezal continua ancora oggi a essere costantemente subissata da una raffica di critiche e censure che in questo periodo stanno in particolar modo avendo un effetto devastante sulla vita dei suoi figli, tutti e tre maschi e meticci, che la implorano quotidianamente di smettere di provare a dire al mondo di essere afroamericana.
Proprio in merito a questo tumultuoso dibattito sul concetto di appartenenza etnica come costrutto sociale e autodeterminazione è stato da poco coniato un nuovo termine, “trans–black“, ovvero la certezza che, come dichiarato dalla stessa Dolezal nella sua autobiografia “In Full Color“, sentirsi neri è una cosa che coinvolgerebbe più la sfera filosofica e culturale che quella biologica, che conta più come ci si sente che come si nasce.
Contro la certificazione psichiatrica relativa a questo gruppo di persone affetta da transabilitá e dismorfismo (Body Integrity Identity Disorder), si è scagliata invece prepotentemente la fetta più grande dei membri della NAACP guidata dalla docente Latoya Brackett convinta che il “trans-black” possa invece distruggere l’immagine che le donne di colore stanno faticosamente cercando di fissare di loro stesse in un mondo contemporaneo ancora fortemente razzista e misogino e che se poi, in più, si dice una bugia abbastanza grande e in seguito si rifiuta di ammetterla anche quando tutti sanno che si sta mentendo, non solo si perde tutta la propria credibilità, ma si ferisce anche coloro per i quali si sta presumibilmente combattendo.
Che sia poi pioniera o prevaricatrice, tutta la frustrazione di Rachel Dolezal irrompe con prepotenza negli ultimi minuti di questo documentario quando, di fronte a un cavalletto dov’è posizionato un collage africano che sta realizzando, inizia a dipingere di nero tutta la tela per sovrascrivere o eluderne il bianco.
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