Le tematiche riguardanti la relazione che intercorre tra sesso biologico, sessualità e genere stanno suscitando sempre più attenzione soprattutto nella speranza di diramare le controversie che da anni sull’argomento ribollono in ambito sociale, politico e culturale.
Dal punto di vista clinico, la distinzione tra i termini sesso e genere è stata introdotta negli anni Cinquanta del Novecento quando, grazie al contributo di autori come Money e Stoller, il lemma “sesso” ha iniziato a indicare una persona descrivibile come “maschio” o “femmina” in base ai caratteri biologici di nascita (ovvero quelli primari cromosomici) e invece il lemma “genere” una interazione di più fattori esterni e interni, psicologici e sociali.
Se per la maggior parte delle persone sesso biologico e identità coincidono, può capitare invece che altre si sentano appartenenti a un genere che non corrisponde al loro sesso biologico di nascita o addirittura che non si riconoscano nel sistema binario di genere.

La disforia o incongruenza di genere è quindi una condizione caratterizzata da una intensa e persistente sofferenza causata dal sentire la propria identità di genere diversa dal proprio sesso, una percezione che resta, badi bene, sempre indipendente dall’orientamento sessuale.
Recentemente la condizione di transgender è stata finalmente eliminata dalla classificazione statistica internazionale delle malattie mentali (ICD-11) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sembrerebbe pronta a tutelare e garantire a tutti gli interessati l’accesso alle fondamentali cure sanitarie necessarie a quelle persone che decideranno di intervenire sul proprio corpo per renderlo più simile a come si percepiscono davvero attraverso trattamenti ormonali e/o chirurgici per una femminilizzazione (da maschio a femmina, male to female, MtF) o una mascolinizzazione (da femmina a maschio, female to male, FtM) del proprio corpo.

Secondo l’approfondito saggio “Disforia di genere in età evolutiva” di Laura Rigobello e Francesca Gamba, la disforia di genere si presenta di solito in età evolutiva attraverso alcuni indicatori specifici, caratterizzati da una marcata scontentezza verso l’appartenenza al proprio sesso biologico, il desiderio di usare un nome di fantasia o abiti del sesso opposto, bisogni che in un ambiente dalla mentalità ristretta potrebbero sfociare in veri e propri atti di bullismo psicologico e fisico per mano di chi è incapace di confrontarsi con tale diversità.
Non a caso secondo una ricerca dell’organizzazione Transgender Europe, tra il 1° gennaio 2008 e il 20 settembre 2020 nel mondo si sono registrati 3731 omicidi con vittima una persona trans o genere non conforme di cui 98% delle persone trans assassinate nel mondo è donna. La maggioranza di queste uccisioni è avvenuta in Brasile (151), Messico (57) e negli Stati Uniti (57) mentre a detenere questo triste primato europeo sono la Turchia (54) e l’Italia (42) dove la transfobia non è ancora percepita come un vero e proprio allarme nazionale.
I perpetratori di violenza e molestie sono, nella maggior parte dei casi, uomini sconosciuti che agiscono in gruppo che attuano questi ignobili crimini d’odio soprattutto in spazi pubblici e aperti come piazze, giardini o parcheggi.

Oltre ai focolai di abusi, il rifiuto al sostegno di questa fetta di popolazione può esplicitarsi con altre modalità come in sede lavorativa dove i transgender, respinti già in fase di colloqui conoscitivi anche a causa di un mancato riconoscimento giuridico (i tempi per il cambio anagrafico di identità sono, soprattutto in Italia, quasi biblici) sono investiti dal più alto tasso di disoccupazione mondiale.
Per questa ragione l’UE sta cercando di consolidare sempre di più quelle norme a protezione dei lavoratori e delle lavoratrici transgender, rintracciabili nella legislazione relativa alle pari opportunità fra uomini e donne (un esempio è la direttiva europea 2006/54) e sta cercando di formare numerose aziende sul comportamento che dovrebbero politicamente adottare in questi casi come, ad esempio, il permettere al dipendente transgender di utilizzare i servizi igienici adeguati al “genere di elezione” (lo stesso dicasi per spogliatoi e spazi interni divisi per genere), o di riconoscere loro un indirizzo email e documenti di riconoscimento interni (badge) conformi al nome scelto.

In Italia la mancata tutela giuridica contro il mobbing lavorativo dei transgender si espande all’ambiente carcerario dove la divisione tra reparti uomini e reparti donne è ancora così estremamente rigida da perpetuare abusi.
Chi finisce più spesso in carcere (o, peggio, nei CIE) sono transgender che, proprio a causa della mancanza di un lavoro dignitoso, cercano di sopravvivere come prostitute, spesso vittime di sfruttamento. E questa narrazione transgender uguale prostituta porta la maggior parte della gente ad associazioni sbagliate e dannose tanto da convincersi che la disforia di genere sia strettamente connessa all’universo dell’ipersessualità e del bizzarro.

Dovremmo prendere esempio dall’antico mondo greco e latino dove queste identità e ruoli non solo non erano così stigmatizzati ma chi viveva una “disforia di genere” era ampiamente integrato nel tessuto collettivo, spesso occupando posizioni di rilievo come nel caso delle hijra indiane, uomini intersessuali nati maschi o castrati che adottano aspetti tipici e nomi femminili, pronti a esibirsi durante ai matrimoni per augurare fertilità alla coppia e che dire dei bambini Konso etiopi o domenicani che, nati con genitali ambigui, vengono cresciuti prima come femmine e durante la pubertà come maschi?
Essere transgender è quindi una condizione normale e non è una malattia come con orgoglio rivendicano i transgender bell* e fier* , dall’attrice Laverne Cox a Daniela Vega, dalle modelle Valentina Sampaio e Lea T. alle iconiche matrixiane sorelle Wachowski.
(Paris is burning, Copyright immagine in evidenza)
Categorie:ATTUALITÀ