Lo scandalo di Cambridge Analytica e il clamoroso coinvolgimento di Facebook in quello che semba un gigantesco datagate hanno portato ad una convocazione di Mark Zuckerberg davanti ad una commissione del Senato americano. Scopo di questa udienza era stabilire i rischi e le responsabilità del social più usato del pianeta, ma quello che è emerso da questa sessione è come, in realtà, del funzionamento del mondo sociale, e, in più in generale, della privacy on line non ne sappiamo nulla. O peggio, abbiamo una conoscenza decisamente ingenua.
Sui social sono subito comparsi meme che mostrano uno Zuckerberg in difficoltà, ironizzando sulla sua espressione alquanto rigida. Da un lato, qualcuno ha voluto precisare come il magnate dei social fosse palesemente in difficoltà, dall’altro altri hanno voluto precisare come il volto inespressivo di Zuckerberg potesse rispecchiare la sua incredulità a certe domande.
Personalmente, credo che la verità stia come sempre nel mezzo. Sicuramente, esser convocati da una commissione del Senato a rispondere delle propri azioni non è un’esperienza particolarmente rilassante, visto il polverone sollevatosi in questi giorni. Una certa rigidità può esser comprensibile, ma credo che ben presto il buon Zuckerberg si sia sentito, più che altro, coinvolto in un colossale scherzo.
Chi ha visto i video della seduta incriminata ha avuto modo di ascoltare le domande dei senatori. Ora, non so voi, ma quando mi aspetto che il mio operato sia messo in dubbio, mi piace pensare che a farlo sia gente che abbia gli strumenti idonei per giudicare. Nel sentire le domande dei senatori membri di questa commissione ho avuto la sensazione che la maggior parte di loro fosse totalmente a digiuno dell’argomento in questione. Una commissione di indagine e valutazione, credo, dovrebbe sapere cosa e come giudicare, in modo da dare un parere netto e affidabile.
Zuckerberg è finito davanti ad una squadra di persone che del mondo di Facebook e dei social ha una competenza che definire marginale è un eufemismo. Dal senatore che chiede come faccia Zuckerberg a guadagnare (‘Senatore, abbiamo gli ads!’), ad altri che continuavano a fare domande volutamente denigratorie nonostante risposte precise.
Chiariamoci, sicuramente ci sono responsabilità da stabilire. Facebook ha sicuramente peccato di scarso controllo, ma non dimentichiamoci che stiamo parlando di una nazione, gli Stati Uniti, che solo pochi mesi fa ha pensato di rinunciare alla net neutrality . Le informazioni e il loro accesso online sono una vera manna, visto come la Rete sia diventata un luogo in cui trascorriamo molto del nostro tempo. Non è Facebook a rubarci le informazioni, ma siamo a darle volontariamente ai social, siamo bramosi di condividere il nostro ‘io’ reale nell’agorà digitale.
E qui entra in gioco anche il nostro modo di percepire la privacy. Viviamo costantemente sui social, pubblichiamo stati su ogni istante della nostra vita, foto e geo-tag come non ci fosse un domani. Ma ora che scopriamo che i nostri dati vengono usati per influenzare l’opinione ci stupiamo, come se non avvenisse da chissà quanto tempo.
La rete è forse il più grande aggregatore di conoscenza e dati personali, e a renderlo tale non è Facebook o i suoi simili, ma sono gli utenti. Riversare informazioni personali per un like è un’abitudine, talmente radicata che nemmeno ce ne accorgiamo. Alla base di questo caos, credo ci siano due elementi.
Il primo, è una totale assenza di conoscenza degli utenti dei meccanismi della vita digitale. Chissà quanti di noi leggono i contratti di sottoscrizione ai social prima di dire ‘si’, più interessati a postare subito l’ultima foto che non a scoprire chi e come potrà vedere, ed usare, i nostri contenuti. Fare gli indignati e gli offesi a posteriori è un atteggiamento comodo, ma denota come in realtà internet sia oramai una frontiera senza regole a cui noi stessi abbiamo scelto di prendere parte.
Più grave, a mio avviso, è che a tutelare gli interessi degli utenti sia una legislazione che probabilmente è stata redatta da chi di questo mondo digitale non ha la minima competenza. L’informazione digitale, il trattamento dei dati personali e il nostro ‘io’ informatico sono una vera ricchezza, e in futuro lo saranno sempre di più. In Italia ci stiamo preparando all’entrata in vigore il 25 maggio del GDPR, eppure sembra che manchi una legislazione che sappia affrontare sul nascere queste problematiche, preferendo mostrarsi inasprita e stupidamente indignata quando l’incapacità di adeguarsi alle nuove tecnologie si ritorce contro di noi.
L’udienza della commissione sul caso Cambridge Analytica ha mostrato che è più facile scagliarsi contro un individuo che ha peccato di ingenuità se vogliamo, ma che rappresenta l’avanguardia di un mondo futuro che non è stato ancora pienamente compreso, ritenuto un semplice passatempo ma che sta prendendo sempre più peso nelle nostre vite. Zuckerberg, odiato o osannato, è il simbolo di una politica ipocrita, che stigmatizza le colpe solo se vengono scoperte, ma che non ha dimenticato come problemi ed ingiustizie si possono evitare con una legislazione competente e organi di controllo affidabili. Certo, se pensiamo che in America sarà questo individuo a controllare la salute della rete, forse è il caso di abituarci ad altre commissioni senatoriali al limite del ridicolo.
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