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“VA’ E VEDI – IL CINEMA DELLO SGUARDO UMANO”. INTERVISTA A GIUSEPPE RAGNO

Conoscere il Cinema attraverso le parole di Giuseppe Ragno significa ritrovare la strada di casa.

Attraverso il suo blog “Va’ e Vedi – Il Cinema dello sguardo umano“, il giovane cinephile pugliese riesce a far accomodare il lettore sulla poltrona rossa più focale per offrirgli una prospettiva delicata e profonda da cui Vedere le immagini in movimento.

E se, come diceva Truffaut, «tre libri alla settimana, dei dischi di grande musica faranno la mia felicità fino alla mia morte», leggere Giuseppe Ragno significa, perciò, farsi davvero del bene.

Oggi l’abbiamo intervistato per voi.

Come è nata l’idea di realizzare il progetto di “Va’ e Vedi – Il Cinema dello sguardo umano”?

Molto tempo prima, nel 2010, gestivo un altro blog dedicato al cinema, ma mi fu sottratto ed eliminato tramite phishing. Nonostante provai a fare un ricorso tramite la piattaforma del servizio di blogging, non riuscì a recuperare nulla dei miei contenuti. Ero molto arrabbiato e amareggiato. Quando fu identificato l’utente che mi causò il danno feci delle ricerche online e scoprì che aveva un canale Youtube con dei contenuti che simpatizzavano con idee nazionalsocialiste. Nello stesso periodo ricordo che vidi per la prima volta “Va’ e Vedi” (Idi i smotri) di Elem Klimov, è un film sovietico del 1985 che mostra i crimini e gli orrori dei nazisti a danno dei villaggi bielorussi durante la seconda guerra mondiale, come nessun altro film sulla guerra sia mai stato riuscito a fare fino ad oggi. Ha avuto un impatto così forte su di me che mi dissi non potevo ricominciare a scrivere di cinema senza prendere in considerazione questo capolavoro. Fu così il film perfetto per “battezzare” il mio nuovo blog. Da circa 11 anni raccoglie poco più di 60 film, tutti film che ritengo debbano essere visti. L’idea del blog infatti è proprio questa, scrivere solo di film importanti e meritevoli, in questo senso “Va’ e vedi” è un invito alla visione che suona anche come un ordine minaccioso (non a caso è anche una citazione dell’Apocalisse di Giovanni).

Quando è scoccato il suo primo amore con la settima arte?

Non è scoccato immediatamente con la stessa intensità, ma si è evoluto gradualmente nel tempo. Ricordo che durante la mia infanzia ero molto affascinato dalle ghost stories, il mio film preferito era “Il sesto senso” di M. Night Shyamalan, l’avevo gelosamente registrato su una VHS che facevo vedere a tutti i miei amici e famigliari. Durante l’adolescenza scoprì la Nouvelle Vague  e con “I 400 Colpi” di François Truffaut cominciò davvero il mio sodalizio con l’arte cinematografica, da quel momento in poi decisi di approfondirla in tutti i suoi aspetti. E poco tempo dopo, quando vidi per la prima volta “La passione di Giovanna d’Arco” di Carl Theodor Dreyer, decisi anche che un giorno sarei diventato un regista! E forse qui ho segnato la mia condanna!? (ride,n.d.a.)

Quali sono i parametri che definirebbero la sua critica cinematografica?

Non credo ci siano parametri particolari, ma credo che una buona critica cinematografica debba “illuminare” il nostro sguardo, estendendolo, non strettamente sul lato interpretativo, ma su ciò che il film formalmente rappresenta. Susan Sontag è stata una delle pochissime critiche cinematografiche che riusciva a farlo, non solo sul cinema ma anche sulle altre arti. Pensando invece all’Italia mi vengono in mente Sergio Arecco (che ha scritto cose bellissime su Robert Bresson) e Vieri Razzini. Personalmente, quando scrivo di cinema non seguo uno schema preciso, cerco il più possibile di restituire al lettore quello che il film mi ha veramente donato. Ma scrivere di cinema è un lavoro che faccio anche per me stesso, perché mi aiuta a capire meglio quello che provo e a migliorare il mio modo di comunicare.

 La Passion de Jeanne d’Arc, Carl Theodor Dreyer (Copyright immagine)

È conosciuto all’interno della community online dedicata al cinema con lo pseudonimo “Julien Davenne”. Perché l’ha scelto? Ha un significato particolare?

Julien Davenne è il protagonista de “La Camera Verde” un film di François Truffaut, ispirato a tre racconti di Henry James. Il protagonista costruisce nel cimitero una cappella per custodire la memoria di tutti gli esseri umani che hanno segnato profondamente la sua vita, non solo quelli vicini a lui materialmente (come sua moglie) ma anche spiritualmente come musicisti, artisti, scrittori, poeti, tutti esseri umani che non ha mai incontrato realmente, ma dai quali ha potuto percepire e sentire la loro presenza attraverso le loro opere. Per me scrivere nel blog è come costruire quello spazio, per questa ragione ho scelto questo pseudonimo.

François Truffaut (Copyright immagine)

Lei ha scritto che, così come affermava Tarkovskij, “l’arte serve per elevare l’uomo spiritualmente” per permettergli di prendere coscienza della propria libertà, della possibilità di scegliere da che parte stare e per quale causa combattere. Cosa intende quando afferma che fare e respirare Cinema può salvare la vita parecchie volte?

Parlo per esperienza personale, credo che il cinema mi abbia davvero salvato da situazioni terribili. Ho avuto un’adolescenza davvero difficile, il mio contatto con il mondo è sempre stato psicologicamente violento, perché spesso gli altri hanno visto in me un essere su cui scaricare la loro infelicità. Potrebbe sembrare un luogo comune per quell’età, ma non lo è mai se finisci col perdere l’amore per la vita e la voglia di vivere. Per me il cinema è stato come un rifugio, un luogo innocente e sicuro, dove fuggire dall’orrore dell’esistenza e acquisire nuove esperienze e visioni che mi facessero varcare le mie stesse prigioni mentali e fisiche. Guardare un film ti isola, ma ti porta inevitabilmente ad avere un contatto molto particolare con te stesso e conseguentemente anche con gli altri, perché se non conosci a fondo te stesso non puoi stabilire alcun legame reale con qualcuno. Il cinema per me è stato ed è ancora una guida per muovermi nel mondo, non a caso mi ha condotto a persone dotate di una sensibilità straordinaria e con alcune delle quali ho finito per legarmi in amicizia ed amore. Credo che tutt’oggi, a 32 anni, la mia vita sia ancora lungi dall’essere perfetta e che per alcuni aspetti sia davvero un disastro, una sorta di grande puzzle da ricomporre, ma posso certamente affermare che il cinema mi abbia aiutato a trovare alcuni pezzi importanti.

Oltre che critico cinematografico, lei è anche un grafico. Un aspetto che lega tra loro i due ambiti è l’uso del colore. Ci può indicare alcuni film dove l’uso di determinate palette sembra vincolarsi alle sfumature caratteriali o umorali dei protagonisti?

Un esempio recente può essere “La ragazza d’autunno” di Kantemir Balagov, è un film che fa un uso straordinario della palette dei colori. Le tonalità giallastre e rossastre della fotografia ricoprono tutti i personaggi come una ruggine, esprimendo davvero la loro condizione interiore: sono sopravvissuti a una guerra che hanno “vinto”, ma questa ha segnato le loro vite così radicalmente che le loro anime sono deteriorate e non riescono più a muoversi dentro il cerchio della vita. In una delle scene del film, Iya (Viktorija Mirošničenko) chiede alla sarta in prestito un vestito verde da far indossare alla sua amica Masha (Vasilisa Perelygina) per la speciale occasione in cui verrà presentata ai genitori del suo nuovo ragazzo. Nella scena dove Masha indossa quel vestito per la prima volta, si guarda contenta allo specchio e volteggia su se stessa per l’entusiasmo, fino all’isterismo. Il verde è strettamente legato alla vegetazione, segna la fine dell’autunno, simboleggia la rigenerazione della terra e la sua mobilità, richiama la prospettiva di una nuova rinascita e speranza nel futuro. Questi sono proprio i sentimenti che la protagonista è tanto desiderosa di ottenere, ma che non riesce a causa del suo traumatico passato. Così la “ruggine” ricopre tutto, anche la brillantezza del verde di quel vestito. Questi contrasti e fusioni cromatiche esprimono chiaramente il dramma del film.

La ragazza d’autunno, Kantemir Balagov (Copyright immagine)

Un altro esempio, meno recente, è senza ombra di dubbio “Sussurri e Grida” di Ingmar Bergman. Il film segue le vicende di tre sorelle che vivono in una grande villa con la loro cameriera Anna. Una delle sorelle, Agnes (interpretata da Harriet Andersson), è in fase terminale a causa di un cancro maligno, con l’evolversi della sua sofferenza e agonia la tensione tra le sorelle crescerà e ci rivelerà la vera natura del loro rapporto. Nel film il colore rosso domina prevalentemente lo spazio e lo sfondo in cui si muovono i personaggi, è un colore che richiama il sangue contenuto nei corpi, è quello che “simboleggia l’essenza della vita” come sostiene la psicoanalista Marie-Louise von Franz e per Bergman è il colore “dell’interno dell’anima”.

“Tutti i miei film possono essere pensati in termini di bianco e nero, ad eccezione di Sussurri e Grida . Nella sceneggiatura si dice che il rosso rappresenta per me l’interno dell’anima. Quando ero bambino,immaginavo che l’anima fosse un drago, un’ombra che fluttua nell’aria come fumo blu – un’enorme creatura alata, metà uccello e metà pesce. Ma dentro il drago, tutto era rosso.”
(Ingmar Bergman)

Sussurri e grida, Ingmar Bergman (Copyright immagine)

L’occhio della macchina da presa si muove all’interno dello spazio rosso, filtrato dall’interiorità delle quattro protagoniste, non a caso il tessuto narrativo si costruisce e compone  attraverso la rappresentazione dei loro sogni, visioni, fantasie, flashback e memorie. Lo spettatore è come se guardasse costantemente all’interno dei personaggi. Il vestiario delle protagoniste si alterna spesso dal bianco al nero, creando anche abbinamenti come il rosso e nero o il rosso e il bianco, questa dicotomia visiva suggerisce come forze apparentemente opposte influenzino ogni singola condizione umana. Il bianco è associato alla luce, alla purezza, all’innocenza e alla verginità, mentre il nero all’oscurità, al lutto, alla depressione e alla paura, tutti sentimenti che le protagoniste vivono alternativamente nelle loro esistenze. Ma la peculiarità del film è quella di possedere una forza visiva tale da condurci in una zona prelinguistica e presimbolica, diventa così inesplicabile descrivere la pace e la solennità che si respira in scene come quella finale, dove le sorelle con i loro vestiti bianchi si dondolano dolcemente su una panchina, circondate da un giardino autunnale. La meravigliosa fotografia di Sven Nykvist valse al film l’Oscar nel 1973.

Se dovesse indirizzare un ragazzo alla scoperta dell’arte filmica da dove gli consiglierebbe di iniziare? E qual è lo stato di salute del Cinema oggi?

Lo indirizzerei immediatamente a Robert Bresson e le sue  “Note sul cinematografo”. Trovo che sia fondamentale per comprendere le potenzialità specifiche dell’arte cinematografica e come il cinema narrativo possa sfruttarle al meglio. Subito dopo lo inviterei ad approfondire le origini, in modo particolare il cinema muto. Lo stato di salute del cinema oggi? Credo che in ogni tempo il cinema abbia fruttato cose straordinarie e continuerà a farlo, quindi contrariamente a chi sostiene che il cinema attuale sia ormai morto o che abbia perso qualità, trovo invece che sia sempre in perfetta salute. Il problema reale non è la salute del cinema in sé, perché esistono ancora produzioni che rispettano la libertà creativa degli autori, ma piuttosto è la distribuzione cinematografica che si è “ammalata” per diverse ragioni. In primis, per piegarsi alle logiche del mercato dettate dal cinema mainstream sempre più imperante e per non aver gestito adeguatamente i canali legali della diffusione delle opere cinematografiche su internet. Negli ultimi tempi sembra che le cose stiano un po’ migliorando, MUBI ad esempio, con il suo servizio streaming sta facendo un lavoro lodevole.  Ma il problema fondamentale rimane quello delle sale cinematografiche che sono sempre limitate dalle politiche dei distributori nazionali.

Cosa dovremmo aspettarci in futuro dal suo blog?

Negli ultimi tempi mi sto dedicando alla produzione di sottotitoli in italiano di molti film stranieri rimasti inediti in Italia, vorrei ampliare il catalogo. Inoltre sto lavorando a una nuova sezione del blog intitolata “100 Film” dove inserirò un’accurata selezione dei migliori film che ho visto nell’arco di tutta la mia vita. Ovviamente la lista verrà aggiornata col passare del tempo in base alle mie nuove visioni.


Se potesse incontrare uno o più registi su di una fumante tazza di caffè quali vorrebbe che fossero? E perché?

Vale anche per i registi morti? In un ipotetico viaggio nel passato, mi piacerebbe incontrare la regista sovietica Larisa Shepitko per conoscere di più della sua vita e dei suoi progetti mai realizzati. La sua produzione di film è stata così intensa e straordinaria, ma sfortunatamente anche così breve a causa della sua prematura morte, che per me è stata insopportabile da accettare. Tra i vivi, mi piacerebbe incontrare Artur Aristakisyan per chiedergli se davvero non ha intenzione di girare un nuovo film come ha dichiarato nelle ultime interviste e per comprendere di più la sua visione del mondo. “Mesto na zemle” è stata una delle esperienze più sconvolgenti che abbia mai fatto guardando un film. So che negli ultimi tempi ha tenuto lezioni e conferenze di cinema, ma non sono riuscito ancora a parteciparvi. Spero di farlo in futuro!

Per seguire le recensioni di Giuseppe Ragno suVa’ e vedi – il Cinema dello sguardo umano, cliccate qui o sulla pagina Instagram ufficiale.

Artur Aristakisyan (Copyright immagine)

(Copyright immagine in evidenza)

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