ATTUALITÀ

LA TV DEL DOLORE

La televisione ci ha abituati da anni ad essere quotidianamente bombardati da immagini violente. Spesso, come accade nei Tg, questa violenza diviene funzionale alla veicolazione di una notizia raccolta sul fronte di guerra. Il dolore è, in questo caso testimonianza. Ma cosa accade se, invece, diventa il punto focale di uno show televisivo? Cosa succede se argomenti di cronaca nera o giudiziaria, oppure vicende di disagio individuale o sociale, si intrecciano ad elementi dell’ intrattenimento? La Tv italiana offre ogni giorno un palinsesto televisivo colmo di programmi che fanno del dolore il punto centrale, ci si può riferire a programmi come Pomeriggio Cinque, La Vita in diretta, Mattino Cinque, Quarto Grado, Chi l’ha visto?, Amore Criminale, I Fatti Vostri, Uno Mattina e Domenica Live. Programmi spalmati su tutte le emittenti televisive, pubbliche e private, di maggior rilievo nazionale.

Se ci fermiamo ad analizzare i programmi condotti da Barbara D’Urso, che, nella fattispecie sono: Pomeriggio Cinque e Domenica Live, messi in onda sul Canale 5 di Mediaset, ci accorgiamo di quanto tempo questi format televisivi dedichino alla cronaca nera. Anche se non sono programmi di approfondimento giuridico o investigativo, bensì di intrattenimento e gossip, le trasmissioni portano il dolore dentro la casa dei telespettatori in varie forme. In alcuni casi, si mostra l’atto violento stesso, l’istante in cui è inferto alla vittima, immagini brutali spesso riprese da telecamere di sorveglianza, e messe a disposizione dalle forze dell’ordine. Fotogrammi sgranati, in bianco e nero, rallentati nel montaggio, volti oscurati, punizioni inflitte ad anziani in case di riposo o a bambini in scuole, sberle, calci, strattoni, proposti al ritmo di musica battente, o di una triste colonna sonora ipnotica, che suggestiona lo spettatore associando elementi di finzione alla realtà. Indipendentemente dalla crudezza delle immagini trasmesse, questa forma di “TV verità” trasforma ineluttabilmente un dolore privato in uno spettacolo pubblico. In altri casi, la trasmissione porta sullo schermo il dolore dei sopravvissuti, parenti e amici delle vittime: donne e uomini che piangono in diretta, urlano al mondo televisivo il proprio strazio, lacrime rigano visi affranti, brillano inquadrate da telecamere, scendono copiose nell’abbraccio simbolico di inviati o conduttrice, che offrono generosamente una spalla virtuale su cui appoggiarsi.

In altri programmi televisivi, come nel caso de La Vita in Diretta, il dolore è presente nella trattazione quotidiana di argomenti di stampo giudiziario e di cronaca nera, ma non diviene l’ingrediente principale, e soprattutto, la spettacolarizzazione è più velata, sostituita spesso da una narrazione empatica promossa dai conduttori. Oltre a ciò, quello che si tenta di fare in questo programma televisivo è aprire un dibattito. Spesso questa volontà fa sì che gli ospiti presenti in studio si dividano in colpevolisti e innocentisti. Queste tesi contrastanti vengono sostenute da esperti nel settore, criminologi, psicologi, legali, ospiti che in qualche modo possono essere credibili agli occhi del pubblico, che, seduto comodamente sul divano di casa, diviene anche lui protagonista del dibattito supportando o meno determinate tesi esposte.

Probabilmente, la trasmissione televisiva, simbolo della spettacolarizzazione del dolore è Chi l’ha visto?, in onda ormai da decenni sull’emittente pubblica Rai 3. Al contrario di altre trasmissioni televisive, qui il dolore è l’unico ingrediente di tutto il format. L’unica alternanza è data dal fatto che nella trasmissione siano presenti diversi casi di cronaca, che vanno dagli omicidi efferati a più leggeri casi di scomparsa. Ciò che però è presente in Chi l’ha visto? e non in altri format, è la descrizione maniacale di dettagli agghiaccianti, che vengono costantemente indagati e discussi, come a voler dire che “è nei dettagli che il diavolo nasconde la sua coda”.

Il dolore ovviamente esiste in ogni evento tragico accaduto, indipendentemente dall’essere narrato dai media. L’esibizione della sofferenza individuale o collettiva non è sempre necessaria alla comprensione del fatto in sé. Al contrario, l’esposizione del dolore privato al pubblico televisivo è problematico perché si rischia di mettere in scena uno spettacolo sul dramma, di mostrare atti violenti non funzionali alla comprensione della notizia, di invadere la riservatezza di persone comuni coinvolte nel fatto. Quando la raffigurazione del dolore è inessenziale, indipendentemente dalle buone o cattive intenzioni, diventa un mero strumento di accrescimento del pathos, un mezzo per coinvolgere emotivamente il pubblico, una finestra sulla dimensione spettacolare del dramma. Quando gratuita ai fini informativi, dunque, la raffigurazione del dolore è una cattiva pratica nel racconto di cronaca.

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